Agcom: Giornalisti sempre più precari

Nel 2016 i ricavi dei quotidiani sono calati infatti del 6,6% rispetto al 2015. La crisi economica del settore editoriale si ripercuote sulle condizioni di lavoro.

GiornalistiNel mercato dei media la stampa è il settore che evidenzia i segnali di maggiore sofferenza e i quotidiani continuano a mostrare il declino strutturale. Questo è quello che emerge dalla “Relazione Annuale” dell’Agcom presentata oggi(11 luglio) in Parlamento. Nell’editoria a stampa continua la contrazione dei fatturati, dei ricavi e delle vendite.

Negli ultimi otto anni il settore dei quotidiani ha perso oltre il 40% del suo fatturato e circa la metà delle copie. A dicembre 2016, la vendita dei quotidiani è risultata di poco superiore a 2,5 milioni di copie, in flessione del 9,8% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Il ricavo dei quotidiani è passato dai 1,9 miliardi del 2015 a 1,8 miliardi del 2016. Il calo è del 6,6%, con una riduzione maggiore dei ricavi pubblicitari(-7,7%) rispetto a quelli derivanti da vendita di copie, inclusi i collaterali(-6%). Data la forte riduzione dei ricavi pubblicitari, gli introiti derivanti dagli utenti rappresentano la fonte di finanziamento prevalente. Lavorare per un periodico o per un quotidiano(nella versione cartacea e/o online) è l’attività più frequente per il giornalista italiano(rispettivamente, per il 42,8% e il 41,7%). Inoltre, nei quotidiani a stampa il giornalista risulta essere ancora prevalentemente un lavoratore dipendente, mentre sui nuovi mezzi informativi, quali le testate online, i giornalisti lavorano più frequentemente attraverso accordi di tipo occasionale(70%). La precarizzazione ha comportato una riduzione dei redditi derivanti da attività giornalistica: la maggior parte dei giornalisti, infatti, ha oggi redditi inferiori a 20.000 euro(solo il 23% degli autonomi e il 17% dei parasubordinati supera questa soglia), con una distribuzione differenziata tra i vari mezzi. Spesso i precari sono giovani, che incontrano barriere all’ingresso nella professione, e donne, poiché rimane un’asimmetria nella distribuzione verticale, sia in termini contrattuali sia di natura retributiva, nonostante un incremento della forza lavoro femminile.

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